C’è un modo corretto per vivere? Esiste una linea retta su cui scorrere? Ci vorrebbe più rispetto per noi eccezioni, e dei panni enormi che l’intero mondo dovrebbe provare a indossare prima di guardarci con quella faccia.

Immaginate un astronauta sull’orlo di una crisi di nervi, a pochi giorni da una nuova missione, con l’età di mezzo che incombe assieme a tutti i conti col passato da chiudere. Si chiama Fausto Cutugno, e di certo si può dire che ha realizzato il suo sogno di bambino, ma ad un prezzo molto alto: non ha realizzato davvero se stesso. Le radici sono ancora lì, che aspettano di essere innaffiate o recise. Perciò torna a casa, in Sicilia, per pochi giorni di vacanza prima di una missione di sette mesi nello spazio. Torna dai genitori, dai (pochi) vecchi amici. Torna alla sua cameretta, a un’auto che suo padre si è preoccupato di accendere di tanto in tanto. Torna in un luogo anzi in una dimensione dove è ormai, di fatto, un alieno. Torna forse per chiudere quei benedetti conti una volta per tutte, con la speranza che finalmente l’equazione possa restituire un risultato accettabile.
Giorni da astronauta è il romanzo d’esordio di Riccardo Marra, già apprezzato autore di racconti (vedi l’ottima raccolta Sento doppio del 2017). È un’opera curiosa, strutturata su un’idea improbabile eppure – e perciò – efficace, una favola realista sullo sradicamento, sul realizzarsi come tradimento e perdita. Inevitabile chiedersi quanto ci sia di autobiografico, dal momento che Marra non è astronauta, certo che no, ma il suo bel decollo lo ha fatto comunque da Catania – dove è nato – a Roma per diventare giornalista, prima collaborando al Mucchio Selvaggio e poi entrando a far parte della Rai come autore, in particolare nella squadra che dà’ vita allo storico programma Novantesimo Minuto.
In ogni caso, mentre attorno al dramma esistenziale si annoda un filo di surrealismo sottile con sfumature di grottesco (tanto da condurti sull’orlo di certe commedie spietate a firma John Fante), Fausto capisce di essere finito in trappola, si muove tra i (vecchi) concittadini senza riuscire ad attivare alcuna empatia, prova un ultimo avventato moto affettivo per una ragazza appena conosciuta ma è un sussulto fantasma, così come il rapporto con l’amico del cuore Samuele sembra obbedire a un codice immutabile ma ormai archiviato.
Mentre capisce questo, non può fare a meno di rievocare la gelida realtà delle missioni spaziali, quella capsula di procedure algoritmiche in cui ha trovato il vero se stesso ma di cui allo stesso tempo comprende il codice alienante. Nel breve ritorno a casa di Fausto sembra quindi nascondersi la consapevolezza che la propria realizzazione è avvenuta grazie a una strategia di negazioni progressive: ed è questo, molto probabilmente, a non dargli pace. Impossibile, per un bowieano come il sottoscritto, non pensare al Major Tom che in Space Oddity compie il balzo nell’ignoto, saldando così concetti apparentemente opposti come avventura e annichilimento, identificazione e solitudine.
Giorni da astronauta è forse solo un racconto che si è spinto un po’ più lontano, divertente e disturbante quel tanto che basta. O forse è una parabola che ci riguarda, che riguarda tutti, non solo le cosiddette eccezioni. Perché a ognuno capiterà prima o poi di fare un bilancio tra ciò che si è scelto di essere e di lasciare. E di capire che non esiste un modo per riavvolgere il nastro, per riannodare fili, per rimediare agli atti mancati, forse perfino per raccontare. Il silenzio non a caso apre e chiude questa storia, come una cornice. O come un monito.