Il mio rammarico è non averlo conosciuto prima. Per prima intendo: durante l’adolescenza. Il 15 novembre del 1970 usciva Loaded, quarto e ultimo album vero attribuibile ai Velvet Underground. Avevo appena compiuto undici mesi e non lo avrei ascoltato nella sua interezza che una ventina d’anni più tardi. Maledizione.

Cos’è questo disco? Le dieci tracce in scaletta raccontano un Lou Reed che a livello compositivo si trovava in modalità juke box, capace cioè di calare sul piatto strane opacità doo wop (I Found A Reason), arrembanti caricature country rock (la quasi krauta Train Round The Bend e il rock’n’roll strinito di Lonesome Cowboy Bill), pop ipnotico e agrodolce (Who Loves The Sun) e RnB stregato rag (Cool It Down), per non dire della nevrastenia blues rock di Head Held High e della digressione acidula (praticamente un vaticinio slowcore) di New Age.
Naturalmente questo elenco non comprende i due pezzi che da soli giustificherebbero la presenza di Lou nella massima serie degli autori rock, ovvero la travolgente (e intrinsecamente desolata) Rock & Roll, nonché ovviamente Sweet Jane, con la sua monumentale tracotanza e la sua noncurante ferocia, matrice di un riff e di una struttura destinati a innumerevoli tentativi d’imitazione (spesso riusciti proprio per la validità del modello). Ispirazione a palla quindi, uno stato di grazia stupefacente che acquista carattere sovrumano se si pensa che a quel periodo risalgono canzoni clamorose come Sad Song, Satellite Of Love e la sottovaluatata Ocean, destinate fortunatamente a vedere la luce nei dischi solisti di Lou.
Ma restiamo ai Velvet: parliamo di una band capace di indurre molti critici e appassionati a ritenere Loaded come il loro album meno significativo perché il più conformista, quello che alle istanze arty anteponeva una (sacrilegio!) strategia di successo. Affermazione tutto sommato condivisibile, tenuto conto della formidabile anomalia rappresentata dai primi tre lavori. Eppure – a parte il fatto che il successo non arrise minimamente – Loaded è un disco di valore assoluto, pervaso di energia insidiosa, di vampe nostalgiche e un aspro, ambiguo disincanto. È il carosello sordido e inebriante di chi si è già sintonizzato sulle frequenze spietate del decennio di piombo e si è fatto un’idea di quanti e quali demoni dovrà affrontare.
Se l’assenza di Moe Tucker ai tamburi (causa gravidanza) contribuì al senso di normalizzazione generale (il suo approccio primitivista era oggettivamente insostituibile), lo stesso fece la voce tra il carezzevole e il beffardo di Doug Yule in molti pezzi. Quest’ultimo aspetto sottolinea inevitabilmente anche il progressivo distacco di Reed dalla parabola della band, progetto (warholiano) nel quale si sentiva ormai soffocare, e che difatti avrebbe abbandonato già prima che il disco comparisse sugli scaffali. È altamente significativo quindi che la tracklist si chiuda con una ballata dai toni epici e crepuscolari come Oh! Sweet Nuthin’, canzone che tra le altre cose rappresenta il motivo principale per cui rimpiango di non avere ascoltato Loaded per intero quando era più giusto farlo.

L’umanità derelitta che popolerà i capolavori del Reed solista (a partire da Transformer) è già presente in Oh! Sweet Nuthin’, compare sullo schermo ripresa da una carrellata laterale che caracolla gelatinosa, come un cuore che rotola languido lungo i marciapiedi, con la consapevolezza sconcertata dei sopravvissuti che gli permette di osservare la cattedrale dei sogni sgretolarsi sotto il proprio stesso peso. C’è il congedo dall’emulsione di utopie dei Sixties, e c’è la profezia dell’incubo tossico dei Settanta: assieme formano un impasto angoscioso e struggente, spingono lo sguardo così a fondo nel cuore della rovina da ricavarne una sorprendente, indecifrabile sensazione di trionfo. È una canzone terribile e gloriosa, una lunga processione affranta con la bussola orientata verso scampoli di speranza residua ma irresistibile.
Se potessi fare un salto nei terribili 80s, cercherei quell’adolescente stralunato che ero e gli consiglierei di ascoltare proprio questa canzone. Tra quelle che non ho conosciuto allora (moltissime, ovviamente), non posso rimpiangerne una più ricca di implicazioni, più trascinante, più bella. Una delle più grandi canzoni scritte da Lou Reed (il che significa, va da sé, una delle più grandi di sempre).
Perciò quando al Bridge School Benefit Concert del novembre 2013 – Lou era scomparso da pochi giorni – Neil Young e qualche collega del calibro di Elvis Costello e My Morning Jacket hanno deciso di ricordarlo scegliendo proprio Oh! Sweet Nuthin’, sono rimasto sorpreso giusto qualche attimo, prima che mi sembrasse la scelta migliore, forse l’unica, che potessero fare.
[…] Narra la leggenda – che peraltro trova molte conferme nelle notizie biografiche – che These Days sia stata composta da un giovanissimo Jackson Browne nel 1964 o nel 1965. Browne, classe 1948, è uno di quei cantautori folgorati sulla strada per il Greenwich Village dopo un breve trascorso nei californiani Nitty Gritty Dirt Band (correva il fatidico 1966). Troppo giovane Jackson in quei primissimi 60s per cavalcare l’onda spumeggiante del folk revival – che vedeva primeggiare gente tipo Fred Neil, Eric Andersen, Phil Ochs, Bob Dylan (of course) e via discorrendo – ma evidentemente già ben sintonizzato su quelle stesse frequenze se a soli 16 (o 17) anni fu in grado di mettere la firma su una canzone come These Days (e altre di pari livello). L’album d’esordio di Browne sarebbe arrivato solo nel 1972, ma intanto, come dire, bazzicava l’ambiente. E non solo: strinse una relazione con Nico, fresca musa di Warhol e ingrediente stupendamente alieno dei primi Velvet Underground. […]
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