Protocollo

Ho scritto questo raccontino qualche mese fa. L’ho recuperato oggi rileggendolo alla luce di un rinnovato interesse per J.G. Ballard, e mi è sembrato finalmente pronto a vedere la luce.

Protocollo

La ragazza si siede sul divanetto color avorio. Fissa l’uomo che ha smesso di avvicinarsi, fermo a tre passi di distanza, le mani sui fianchi e un’espressione bonaria che ha appena sostituito quella di sorpresa. La ragazza non parla.
«Va tutto bene, Anita?»
«Sì.»
«Sei pallida. Vuoi qualcosa da bere?»
Lei distoglie lo sguardo. Porta la mano sinistra sul lato destro del volto, sposta una ciocca liscia e spessa.
«Devi aiutarmi.»
«A fare cosa?»
«Ho deciso di morire.»
La voce di lei è rigida, scolpita. L’uomo resta immobile. Fissa la ragazza, negli occhi una luce che sembra coagulare istante dopo istante. Si scuote.
«Cosa ti succede?»
«Voglio aderire al Programma.»
L’uomo serra le labbra, distoglie lo sguardo. La ragazza lo incalza.
«È un mio diritto.»
«Certo.»
«Ma non ho soldi.»
L’uomo distende un sorriso nervoso.
«Questo è un problema.»
«Ti ho chiesto di aiutarmi.»
«Vuoi qualcosa da bere, Anita?»
La ragazza si volta di lato. Una piega di irritazione le incupisce la fronte.
«No, grazie.»
L’uomo si sposta verso il mobile bar di fianco al tavolo di vetro, lo apre. Valuta la fornitura di bottiglie e ne estrae una di cognac. Prende due bicchieri dalla vetrina superiore. Apre la bottiglia. S’interrompe di colpo per tornare a fissare la ragazza.
«Sicura?»
«Ok, va bene. Un goccio anche per me.»
L’uomo versa un dito di liquido ambrato per bicchiere. Chiude la bottiglia. I suoi movimenti sono eleganti, misurati. Raggiunge la ragazza, le porge un bicchiere. Si siede sul divano di fronte a lei e lascia passare qualche istante, l’espressione calma, inerte.
«Devo chiederti il motivo.»
«E quel problema dei soldi?»
«Prima il motivo.»
La ragazza porta il bicchiere alle labbra. Sorseggia brevemente, socchiudendo le palpebre quando l’alcol si fa strada nella gola. Dirige lo sguardo verso il pavimento.
«Non c’è altro che valga la pena di vivere. Tutto qui.»
L’uomo sorregge il bicchiere con entrambe le mani. Non ha ancora bevuto.
«Hai ventitré anni, Anita. Ti mancano due esami alla laurea.»
«Tre.»
«Certo, tre esami. È un po’ presuntuoso da parte tua pensare di avere già vissuto tutto, non credi?»
La ragazza sorride, gli occhi ancora incupiti.
«Molto prevedibile, come discorso di circostanza.»
L’uomo porta il bicchiere alle labbra. Le bagna appena, lascia che l’aggressività zuccherina dell’alcool raggiunga la lingua e il palato. Prende un respiro profondo.
«Ho dei precisi doveri professionali, Anita. Esiste un protocollo.»
«Non ti ho incaricato ufficialmente. Non posso permettermelo.»
«Ok, questo è un problema, ma non è il principale. Per l’amicizia che mi lega ai tuoi…»
«Non li avviserai, vero?»
L’espressione dell’uomo si congela di colpo. Rimane in silenzio per qualche istante.
«Non senza il tuo consenso.»
«Non ho intenzione di dartelo.»
L’uomo resta impassibile. Porta ancora il bicchiere alle labbra e manda giù un sorso secco, breve. Il pomo d’Adamo ha un sussulto in mezzo alla gola pallida. Stringe le palpebre, le tiene chiuse per qualche attimo. Quando torna a guardare la ragazza, tenta di farlo con calore.
«Naturalmente. È sempre così. La normativa lo prevede, non posso evitare di chiederlo. Ma non è pensabile che un aspirante suicida conceda all’esecutore l’autorizzazione a contattare i familiari. Non accade mai. Non all’inizio, almeno.»
Bagliori improvvisi negli occhi della ragazza. Un reticolo di allarme evanescente.
«Vuoi dire che… C’è chi cambia idea?»
«Sì, in alcuni casi. Nelle ultime fasi della procedura, qualcuno chiede che i familiari vengano avvisati. Il regolamento non prevede nulla in contrario.»
La ragazza scuote la testa.
«Lo trovo crudele.»
«Nei confronti di chi?»
La ragazza non risponde. L’uomo si allunga fino al tavolinetto basso di fianco al divano, posa il bicchiere e prende un inalatore. Controlla la carica e recupera la posizione precedente. Attiva l’inalatore e aspira due boccate intense di vapore azzurrino. Sorride.
«Hai più di ventuno anni, quindi senza la tua autorizzazione non posso chiamare i tuoi genitori, anche se tuo padre mi odierà per il resto dei suoi giorni. Il protocollo parla chiaro. Tuttavia, devo completare tutti i passaggi. Capire se la tua è una scelta solida, sana.»
La ragazza interviene con parole asciutte e volatili, come lo sgonfiarsi di un palloncino.
«Ogni ora di ogni giorno mi pesa. Mi nausea sapermi circondata da esseri umani. Niente mi attrae, niente mi soddisfa. Niente. Non provo affetti, sentimenti, emozioni. A parte la nausea. Una nausea costante. Ti sembra abbastanza solido e sano?»
L’uomo prende un’altra boccata di vapore. Lo trattiene, fa vagare lo sguardo sul soffitto punteggiato di faretti, quasi tutti spenti. Rilascia il vapore facendolo filtrare dalle narici e dai denti.
«Sì e no. Mi sembra tipico. Come tipica è la soluzione alternativa che ti propongo.»
«Non voglio droghe.»
«Tecnicamente non sono droghe.»
«Non voglio quella merda.»
«Le probabilità di sviluppare dipendenza con i nanoagenti neuronali a disattivazione programmata sono pressoché nulle.»
La ragazza piega la testa di lato, lo sguardo duro.
«Il passaggio successivo?»
L’uomo prende un’altra boccata e deposita l’inalatore sul tavolinetto. Si ricompone e congiunge le mani all’altezza del mento.
«L’utente Anita Stipoli dichiara di non voler usufruire del Programma di ricondizionamento psicoaffettivo a nanoelementi, da me proposto in ottemperanza alle normative del Programma di Eutanasia Assistita Statale, di seguito PEAS. L’utente conferma?»
«Confermo.»
L’uomo annuisce.
«Non mi spiace che tu abbia rifiutato il primo punto del protocollo, Anita. Dovevo proportelo come da disposizioni di legge. I nanoagenti sono la pratica più economica, relativamente all’efficacia. È comprensibile che il governo spinga in quella direzione. Il secondo punto, per chi ha meno di trent’anni come te, è di sicuro più allettante. Nonché, dal mio punto di vista, un’esperienza formativa di ottimo livello.»
«Non ho intenzione di entrare in comunità.»
«Le comunità non esistono più da prima che tu nascessi.»
«Le avete solo ribattezzate.»
«I forum formativi del PEAS hanno fatto scuola nel mondo, Anita. Servono a superare la fase di depressione che stai vivendo. Servono davvero
La ragazza butta giù il resto del cognac con un sorso secco. Posa il bicchiere sul pavimento, tra i piedi. Ci ripensa e lo sposta di lato. Solleva lo sguardo sull’uomo.
«Credi che sia depressa?»
«Si tratta di una categorizzazione generica, ovviamente. Ma esiste senz’altro una forma di depressione in grado di descrivere la tua patologia. Conosco uno specialista che…»
«La legge sull’eutanasia assistita non prevede eccezioni se vengono diagnosticate patologie di tipo depressivo. Sono perfettamente in grado di intendere e di volere, non sono tossicodipendente né alcolizzata, non ho subito alcun tipo di condizionamento culturale, religioso, psichico. Voler morire è un mio diritto.»
«Esatto, Anita. La depressione non determina eccezioni. Sono un sostenitore di questa tesi. Lo dimostra il lavoro che faccio.»
«Allora perché mi stai dando della pazza?»
«Non l’ho fatto. Ho detto che sei depressa. Lo siamo tutti, no? Qualcuno un giorno ha detto che la depressione è il lubrificante del nostro sistema sociale. Non potrei essere più d’accordo. Ma il tuo livello di depressione è diverso dal mio. La tua depressione si è nutrita di un contesto, di un complesso psicologico ed emotivo che l’ha portata a soverchiare la volontà di far parte del progetto sociale. La tua non è pazzia, è una forma di disequilibrio. Piuttosto diffusa, tra l’altro. Te lo garantisco.»
La ragazza fa una smorfia, si sistema sul divanetto color avorio.
«Non puoi permetterti di mettere in dubbio la mia lucidità, né le mie capacità di analisi. Il test di Shannon-Lugate…»
Nell’aria si diffonde un ronzio improvviso che provoca il silenzio e un breve irrigidimento dei due. L’uomo alza un indice abbozzando una muta richiesta di permesso, quindi estrae il comunicatore dal taschino della giacca, osserva il display e sfiora l’interruttore di consenso.
«Signora Aliberti, mi dica.»
L’uomo ascolta. Unisce le mani per i polpastrelli, lascia vagare gli occhi sulla parete di fronte.
«Non è possibile, signora. Abbiamo un appuntamento per domani alle 15, le norme non ci permettono di anticipare. Se gli antidolorifici non fanno più effetto, le ricordo che a meno di ventiquattr’ore dall’intervento è possibile ricorrere ad oppiacei di classe AA. La metto in contatto con un medico di mia fiducia, se crede.»
L’uomo rimane in ascolto. Annuisce appena. La ragazza nota la grana setosa della pelle, perfettamente distesa sugli zigomi e sulla fronte.
«Le assicuro che non perderà coscienza, signora. Si tratta di un oppiaceo di sintesi di ultima generazione, lavora a livello neuronale inibendo la percezione del dolore. Gli effetti indesiderati però sono oltre la soglia minima consentita, per cui è possibile somministrarlo solo in fase terminale. Le sto inoltrando i contatti del medico. Credo che potranno recapitarvelo in trenta, quaranta minuti. Mi chiami pure per qualsiasi problema a qualsiasi ora. Ci vediamo domani, signora. Si figuri. Buonanotte.»
L’uomo sfiora ancora il display del comunicatore e abbassa la testa. La ragazza lo osserva per qualche attimo prima di parlare.
«Un cliente?»
L’uomo socchiude gli occhi. Annuisce.
«Il dolore è diventato insopportabile.»
«Tumore?»
L’uomo alza la testa.
«No. Non più. Ha novantasette anni, due rimozioni effettuate con successo, terapie di contenimento regolari. Considerati i trascorsi, è sano come un pesce. Da dieci anni però ha cominciato ad avvertire dolori alle articolazioni, sempre più forti. Un tipico caso di artrite reumatoide fantasma. L’assuefazione alle terapie è inevitabile ed esponenziale. Alla fine la situazione è diventata insopportabile. Non c’è alternativa all’eutanasia, se non la criogenizzazione periodica o parziale, non più praticabili a quell’età. Abbiamo dovuto lavorare molto per scongiurare il suicidio. È stata una faticaccia.»
«Io non ci ho mai pensato. Non ci riesco.»
L’uomo sorride.
«Meglio così. Se ti fossi suicidata, le sanzioni ai tuoi familiari sarebbero state durissime. Li avresti ridotti al livello minimo di sopravvivenza.»
«Lo so. Non è quello che voglio.»
«Perché vuoi morire, Anita?»
«Perché vivere è impossibile.»
L’uomo distende i lineamenti, rivelando una stanchezza improvvisa, sincera.
«Bene. Non c’è altro da aggiungere. Ti fisso un appuntamento. Sicura di volerlo fare con me?»
«Non potrei farlo con altri.»
«D’accordo. Possiamo fare questo venerdì. O preferisci dopo il weekend?»
«Vorrei farlo subito.»
L’uomo porta le mani alle tempie, le preme con i palmi, le dita raccolte, i gomiti a fare perno sulle ginocchia. Lascia scivolare qualche istante muto, vischioso. Quando si alza, evita di incrociare lo sguardo della ragazza. Cammina con passo leggermente accelerato, l’espressione d’improvviso grave, svuotata. La ragazza lo osserva uscire dal salotto e avverte una variazione indecifrabile nel battito del cuore, come se fosse sul punto di deragliare. Passano pochi secondi prima che l’uomo rientri. Ha un’arma puntata contro di lei. La ragazza fa appena in tempo a scorgere il bagliore scarlatto del laser di puntamento prima di avvertire l’impatto sul collo. Si irrigidisce, il respiro le si congela nel petto. Perde l’equilibrio e con un ultimo spasmo rotola giù dal divano. L’impatto dello zigomo col pavimento non le procura dolore. Non sente il contatto della carne con la resina vetrificata delle piastrelle, non percepisce la temperatura. Non può muoversi. Osserva tutto, lucidamente. Chiama a raccolta i pensieri, il raziocinio. Tenta di quantificare il tempo, gli istanti che passano in quella mancanza di segnali. Potrebbero essere passati solo pochi attimi o minuti, ore, quando finalmente una figura compare nel suo campo visivo. È una scarpa. Poi una mano, che si muove davanti ai suoi occhi sbarrati. Non riesce a seguirla, scorre prima in un senso e poi nell’altro senza scopo, scollegata da tutto. Subito dopo qualcosa accade nella sua testa. Vibrazioni, un rimbombo sparso, slabbrato, che in breve converge e solidifica in una sagoma sonora. Una voce. Progressivamente, come una densa dissolvenza in entrata, riesce a distinguere le parole.
«Ci sei, Anita? Puoi sentirmi? Muovi gli occhi a destra e a sinistra.»
La ragazza si concentra per orientare lo sguardo, ci riesce. La voce dell’uomo prosegue.
«Bene. Ti informo che siamo passati alla fase uno del protocollo. Ti ho sedata e impiantato dei nanoinibitori neuronali ad azione progressiva programmata. Per i prossimi cinque minuti non sarai in grado di controllare i movimenti. Il tuo corpo dovrebbe essere del tutto insensibile. In questo momento ti sto pungendo sull’avambraccio sinistro. Mi confermi di non sentire niente? Muovi gli occhi a destra e a sinistra in caso affermativo.»
La ragazza obbedisce.
«Ottimo. Abbiamo cinque minuti, Anita. Anzi, poco più di quattro, prima che il processo divenga irreversibile. Ti spiego cosa sta succedendo, cosa ti sta succedendo. La paralisi è indotta da una soluzione anestetica, l’effetto è di breve durata, dieci minuti al massimo. Il fatto interessante è un altro. Nei dieci secondi successivi al contatto col proiettile di impianto, circa ventimila nano inibitori si sono distribuiti in maniera statisticamente uniforme nel tuo sistema circolatorio. Subito dopo hanno stabilito una rete che copre ogni millimetro cubo del tuo corpo. Quando scadranno i cinque minuti, inizieranno un processo di demolizione mirata. In poche parole, distruggeranno il tuo sistema nervoso. Non sarà breve, né piacevole. Tutto chiaro fino a qui? Muovi gli occhi in caso affermativo, per cortesia.»
La ragazza muove gli occhi.
«Perfetto. Veniamo a quello che possiamo fare adesso. Puoi chiedermi di interrompere il processo e lo farò immediatamente, disattivando i nanoinibitori. Ma questo comporterà automaticamente la tua adesione al Programma di recupero statale. Sto documentando tutto, ovviamente. Secondo le disposizioni di legge, se una volta accettato ti rifiuterai di partecipare alle attività di recupero, verrai privata dello stato di libera cittadina e sottoposta a regime detentivo pesante. Sai di cosa parlo, immagino. Hai una sola alternativa, ovvero passare alla fase successiva del protocollo. Per me significa autorizzare l’intervento dell’assistenza terminale, e andarmene.»
L’uomo prende qualche istante di pausa, accucciato di fianco alla ragazza.
«Te lo chiederò tre volte Anita, come da protocollo. Vuoi interrompere il processo? Muovi gli occhi verso destra in caso di risposta affermativa, oppure verso sinistra se la risposta è negativa.»
Gli occhi di lei si muovono a sinistra. L’uomo inspira, fa una smorfia di disappunto.
«Non posso dire di esserne sorpreso. Anzi, è piuttosto tipico. Nessuno arriva a questo punto senza valide motivazioni. Solo, non te lo aspettavi così, vero? Pensavi a una specie di intervento ambulatoriale, sterile, indolore. Inconsapevole. Invece no. Non per quelli come te. Il protocollo è stato concordato dopo un lungo dibattito tra alti rappresentanti del mondo della scienza, della medicina, della cultura e della fede. E della politica, ovviamente. Le deliberazioni conclusive sono state secretate. La versione del protocollo che è stata resa di pubblico dominio è falsa. Fa parte del protocollo stesso, ed è lo spirito del Programma.»
L’uomo porta una mano sulla testa della ragazza. Le accarezza i capelli. Qualcosa di lieve cambia nella sua espressione, come un ridisporsi di luci e ombre.
«Ti ricordo bambina, Anita. Ricordo il tuo sguardo. Hai sempre avuto una consapevolezza precoce ed eccessiva di quello che ti stava accadendo. Di quello che stava accadendo al tuo corpo, alla tua mente. Sapevo già allora che non ne saresti mai stata libera. Lo sapevo anche quando ti vedevo giocare, quando ridevi, apparentemente libera. Ricordi quel pomeriggio al mare, la ricerca delle conchiglie?»
Gli occhi della ragazza hanno un fremito prima di muoversi di poco verso l’alto, lentamente. L’uomo smette di carezzarla, raccoglie le mani davanti alle ginocchia.
«Devo chiedertelo ancora. Vuoi accettare il Programma di recupero? Abbiamo due minuti prima che il processo diventi irreversibile. Di nuovo, muovi gli occhi verso destra in caso di risposta affermativa o verso sinistra se la risposta è negativa.»
Gli occhi della ragazza rimangono immobili. Qualcosa nel suo respiro, per un attimo, sembra incagliarsi. L’uomo se ne accorge e le porta d’istinto due dita alla carotide. Si concentra sul battito, trovandolo regolare.
«L’azione del sedativo si sta esaurendo, Anita. Capita con alcuni soggetti che l’effetto sia meno prolungato. Del resto, i dosaggi sono standard, devono necessariamente rientrare nei termini di legge per scongiurare l’eventualità di reazioni avverse. Non è una buona notizia. Le fasi iniziali della demolizione neuronale sono estremamente… spiacevoli.»
Gli occhi della ragazza si muovono verso sinistra. L’uomo si alza. Compie un mezzo giro attorno al corpo della ragazza. Avverte l’odore acido prima di accorgersi dei pantaloni fradici di lei, della pozza che si sta allargando sotto le cosce. Rimane impassibile. La voce esce composta, fredda.
«Devo chiedertelo un’ultima volta, Anita. Non ci saranno altre possibilità. Se vuoi che interrompa il processo, sposta lo sguardo a destra. Questo comporterà l’automatica adesione al Programma di recupero statale. In caso di risposta negativa, sposta lo sguardo verso sinistra.»
La testa della ragazza è scossa da uno spasmo breve. Le palpebre sbattono due volte energicamente, poi gli occhi si spostano verso sinistra. L’uomo distende le labbra in un sorriso amaro.
«Mi dispiace. È la tua volontà.»
L’uomo attiva il comunicatore e rimane in attesa per qualche istante.
«Agente quattordici, criptatura standard. Segnalo necessità di recupero presso la mia residenza. Soggetto femminile. Ventitré anni. Generalità note, preparo rapporto e documentazione da ritirare in loco. Fase di sedazione in esaurimento. Procedo con gli adempimenti finali del protocollo.»
L’uomo si accuccia di nuovo accanto alla ragazza. Osserva il suo corpo, adesso scosso da brividi e sussulti.
«Ecco. Questo è il momento che preferisco. Quando vi riprendete, quando ritornate a controllare il corpo e sembra che non lo sappiate fare, che non lo abbiate mai fatto. Siete come pesci saltati fuori dall’acquario, liberi in un ambiente ostile. Condannati.»
La ragazza inizia a tossire. Un rivolo di sangue spunta da una narice e disegna una linea rapida e sottile lungo la guancia. Il respiro si fa affannoso, innaturale. L’uomo distoglie lo sguardo.
«Stanno per venire a prenderti, Anita. In pochi minuti saranno qui. Non morirai. Non hai mai avuto la possibilità di scegliere se morire o sopravvivere. Non così, almeno. Le prime fasi del protocollo sono dette esperienziali. Anche se avessi deciso di sospendere subito il processo, le conseguenze per te non sarebbero cambiate di molto. Serve a redigere un profilo psicologico, capisci? In ogni caso, subirai un ricondizionamento profondo. Ti toglieranno tutto, a partire dall’identità. I tuoi genitori verranno convocati entro due giorni, saranno informati di ogni dettaglio e riceveranno tue notizie una volta al mese. Il tutto col vincolo della riservatezza, naturalmente. Se non lo rispetteranno, verranno condannati alla confisca immediata di tutti i beni e al confino in uno dei quadranti industriali Nord-Est.»
L’uomo si interrompe. Prende un respiro profondo tenendo la bocca socchiusa.
«Tutti gli altri, amici, colleghi e parenti, ti crederanno morta. Diranno loro che hai aderito al Programma statale di eutanasia indotta e verranno a portare fiori sulla tua tomba. Lo faranno anche i tuoi genitori, li obbligheranno a farlo. Dovranno rispettare un calendario di visite al cimitero stilato dalla Commissione. E tu potrai rifarti una vita, anche se non sarai più tu. Non sarà facile. Anzi, sarà tutt’altro che facile. Il senso del Programma è questo, Anita. Sono sicuro che non ci metterai molto a capirlo.»
Un segnale a media frequenza si irradia discreto nel salotto. L’uomo si volta verso la porta d’ingresso dell’appartamento. Sorride appena.
«Che ti dicevo? Sono già qui.»

6 commenti

  1. Davvero,molto bello il tuo stile.
    Quando la descrizione dei dettagli sembra fagocitare la trama stessa ecco che questa diventa incalzante;inaspettata ti cattura anche il respiro. Sembra di aver assistito ad un corto

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