Fare i conti: The Sophtware Slump

Penso, scrivo, parlo di musica ormai sempre più come se fosse un resoconto, una resa dei conti. Con me stesso. Con la memoria che, sfilacciandosi, fila il tempo.

Ascolto più album che posso tra quelli che escono oggi, ma basta una scusa anche minima, una briciola di madeleine, per farmi ipnotizzare dal passato. Ad esempio: in un giorno di maggio del 2000, forse l’8 oppure il 29,veniva pubblicato The Sophtware Slump dei Grandaddy.

Del disco ho scritto a suo tempo una recensione su Sentireascoltare. Questa però non è e non vuole essere una recensione (qualsiasi cosa siano o siano nel frattempo diventate le recensioni). Penso a quella primavera quasi estate del 2000, a come affondai in questo disco, a come ascoltandolo mi sentissi su una piattaforma da cui potevo sporgermi per scrutare nella nebbia del mio futuro e in quella di tutti. Erano giorni letteralmente intrisi di futuro, sospesi su una frammentaria, ibrida, pervadente ansia di futuro. S’intravedevano possibilità incredibili e minacce subdole più o meno ovunque: bastava sporgersi. Il web aveva appena iniziato a cambiarci la vita, apocalittici e integrati incrociavano le spade sotto la luce abbagliante dell’inevitabile, le ideologie esplodevano come pop-corn, i supporti si liquefacevano e i tubi catodici iniziavano a sembrare voluminosi retaggi del passato, mentre i cellulari non ancora smart avevano ormai aggredito alla radice i concetti di distanza e reperibilità. 

E arrivò questo disco, pochi mesi dopo la sbornia dell’ingresso nel nuovo millennio (con buona pace di chi sosteneva che il 2000 era ancora ventesimo secolo). The Sophtware Slump: allusione al concetto di sophomore slump, la crisi del secondo anno o del secondo tentativo, dopo il relativo successo di Under The Western Freeway, ma anche al concept che attraversa i pezzi, quello dell’obsolescenza dei software (e dei relativi hardware) come paradigma del crollo che minaccia l’idea stessa di una società sempre più tecnologica, algoritmica, connessa, integrata.

I quasi nove minuti di He’s Simple, He’s Dumb, He’s the Pilot posti in apertura si avviano come una ballatina fragile nata in un luogo riposto, isolato, lontano. Jason Lytle in effetti compose i pezzi in totale isolamento, recuperando un metodo – isolarsi per connettersi davvero con lo spirito dei tempi – che rimanda ad esempio ai magnifici Basement Tapes di Dylan con la Band. Ma il punto vero sono questi quasi nove minuti: ballata folk rock, planate prog e pigolii sintetici sono le forme che, assieme al timbro abbacinato – quasi un semifalsetto – di Lytle, ti spediscono in una dimensione assieme intima e cosmica, ti fanno atterrare sulla piattaforma da dove puoi rivolgere un pensiero nostalgico e timoroso al Maggiore Tom (“Hai perso le tue mappe, hai perso i piani/Li hai sentiti urlare/Terra, dannazione, terra?”) per poi consumare un bilancio astratto e struggente, rimbalzato da un indefinito ma inappellabile collasso culturale prossimo venturo. Sembra quasi che questa canzone, così potente ed eterea, provenga dalle macerie ormai sterilizzate di un futuro imploso, nel quale rimangono pochi margini per il rimpianto o per qualsiasi tentativo di rivalsa. 

Sarebbe una specie di sollievo riuscire a confessare, chiamando a raccolta tutta la lucidità di cui sono capace, che molte delle sensazioni che provo ancora oggi a riascoltare la baldanza straniante di Hewlett’s Daughter, l’impeto abbacinato di The Crystal Lake, la folle autodistruzione alcolica messa in scena da Jed The Humanoid e la straniante parabola sulla compenetrazione trai natura e residui tecnologici di Broken Household Appliance National Forest (“Mud and metal mixing good”), siano dovute a tutto ciò che è accaduto dopo: al modo in cui quel futuro così atteso e temuto ha spiazzato le aspettative, colpendo al cuore i concetti di sicurezza, controllo e informazione, lasciando sul tavolo a complicarsi ulteriormente questioni già esplosive come il cambiamento climatico, le disparità di genere, gli squilibri economici, il razzismo. Invece molto di ciò che provo oggi stava già lì, in questo disco e in altri, come Kid A o Yankee Hotel Foxtrot, le colonne sonore profonde di quella strana cuspide tra vecchio e nuovo millennio.

Come tutti i concept riusciti, The Sophtware Slump ha una caratteristica: le canzoni funzionano anche di per sé. Sono intuizioni autonome all’interno di un sentire più ampio, la cui somma da vita a qualcosa di più grande del totale, ma che singolarmente non smettono di significare. Dei dieci titoli in scaletta, quello che più mi lasciava senza fiato all’epoca era Underneath The Weeping Willow, una di quei milioni di canzoni che Neil Young deve avere scritto in un’altra dimensione e che qualcuno – come Lytle – ogni tanto riesce a intercettare. C’è un piano rappreso in una semplice, solenne afflizione, mentre altre note di tastiera più acute, in loop, sfarfallano liquide e vetrose, e c’è la voce dimessa di Lytle impegnata a ricomporre il cadaverino della malinconia con pochi versi di una semplicità disarmante: 

I want to sleep

Underneath the weeping willow

As it cries all night quietly

It’s tears all around me

I’ll sleep there so soundly

Until I’m allowed finally

To wake and be happy again

Sto ancora facendo i conti con tutto questo. È tutto quello che chiedo alla musica, alla mia voglia inesausta di ascoltare. È quello che mi auguro possa sempre regalarmi.

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