Questa la scrissi nel febbraio del 2002. La mia prima rubrica per il Mucchio Selvaggio esisteva da un anno e non era facile trovare quasi ogni settimana un vecchio disco di cui avere voglia di scrivere. Ma con Inflammable Material fu facile. Sì, ricordo benissimo la foga, il divertimento con cui scrissi queste righe. Piene di ingenuità e soluzioni frettolose, certo, ma pazienza. Ricordo anche che accadde un fatto inconsueto: ricevetti almeno tre e-mail di lettori entusiasti (uno dei tre era addirittura commosso) perché, in soldoni, finalmente qualcuno aveva parlato di una band sistematicamente ignorata dai media. Risposi con frasi di circostanza: in realtà non ho mai scritto molto di punk e (immediato) post-punk, a dirla tutta non posso dirmi un appassionato del genere, mi interessa molto più come fenomeno sociale e culturale (necessario come a volte lo sono certi scapaccioni, e ve lo dice uno che è contrario alle punizioni fisiche). Ma negli Stiff Little Fingers ho sempre avvertito quella densità, quel peso specifico che rende i loro pezzi significativi oltre la maschera(ta) del punk, li radica alla Storia e quindi li consegna a una specie di eternità. Fu quindi naturale sceglierli e selezionare questo disco che ascolto ancora oggi con una certa regolarità (per anni è stata una presenza fissa in auto, prima che tragicamente lo dimenticassi sul sedile schiacciandolo poi coi miei novanta chili: custodia distrutta, ma cd salvo e portato amorevolmente in luogo più sicuro). Di seguito quindi la pseudo-recensione che scrissi all’epoca, così come apparve sul Mucchio.
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Stiff Little Fingers – Inflammable Material (1979)

Belfast, 1977: folgorati da Clash e Vibrators, gli Stiff Little Fingers iniziano a mordere il palco con foga non comune, trasformando le sfuriate del punk in rivendicazione e denuncia, specchio impietoso di un Irlanda del Nord esausta, lacerata e offesa. Sarà l’acutezza feroce del singolo Suspect Device (1978) a spianare per Jake Burns (voce e chitarra), Henry Cluney (chitarra ritmica), Ali McCordie (basso) e Brian Faloon (batteria) la strada per Londra. Ad attenderli, un contratto con la Rough Trade e un album di debutto molto, molto pericoloso.
Da quando, tredicenne, Jake Burns intercettò uno show televisivo del fenomenale bluesman Rory Gallagher, capì che la sua rabbia doveva avere la forma, l’impeto e l’attitudine di una electric guitar. Col tempo, ne fece un’incazzatura intelligente, pugnace, levigatissima: quasi del tutto accantonati il “no future” e i piercing-spilloni, i suoi testi sono da annoverarsi tra i più intransigenti e scomodamente consapevoli del periodo. In forza di questi, di una creatività burrascosa e della produzione genialoide di Mayo Thompson (già nei Red Krayola), gli Stiff Little Fingers si imposero di colpo ad una generazione cresciuta e indurita tra le maglie del punk: ecco Inflammable Material.
L’inizio è un riff propulsivo, di quelli che sembrano schioppettate fuse, subito incalzato dai ragli del canto e – come di prammatica – dal plotone compatto (l’altra chitarra, il basso, lo sfarfallio marziale della batteria): è Suspect Device, scellerata e irosa, liberatoria espettorazione di nefandezze, benedetta dal fulmicotone del ritornello-proiettile e dall’apparizione inconsulta di un piano sul controtempo sferragliante. Se State Of Emergency ha il non facile incarico di mantenere alta la pressione (ci riesce benissimo, con quel filamento d’elettrica lanciata nel vuoto), Here We Are Nowhere pigia ulteriormente sul pedale del ritmo allestendo un minuto di rockabilly stranito sul tema tipico dell’inadeguatezza, di uno stare al mondo che non riesce a sentirsi la vita nelle vene. La successiva Wasted Life alza la testa dalla depressione e torna ad inveire forte contro certo giustizialismo travestito da valore, con una lucidità che potrebbe benissimo adattarsi alle sceriffate “globali” così di moda ai nostri giorni: la voce di Burns si carica a mille e sgrana la rogna col piglio del Jello Biafra che verrà, al riparo di un muro fuzzy su cui sbocciano grappoli di basso e stilettate brevi di chitarra, mentre il buon Faloon sgretola incessante la congrega degli attimi.
Detto che Cluney si impadronisce del microfono per il pacifismo ostinato di No More Of That, cavandosela mica male, ci si imbatte poi in una Barbed Wire Love che si finge ormonale e stupidella (badate bene: un Green Day qualunque si strapperebbe le sopracciglia per un pezzo così) salvo celare dietro agli ammiccamenti doo-wop i tremori e i per timori un futuro dall’aspetto solido e definitivo del cemento armato. Con White Noise il paesaggio si frastaglia, il suono si schiaccia e rincula, i versi picchiano duro sul tasto della discriminazione razziale, sparando frasi e scatarrando furia, rotolando convulsi fino al tuffo nel rumore bianco finale: che è vento, è fiume, è perdersi indistinto tra le cose.
Come già detto, i Fingers sono titolari di signori testi, e ce lo conferma una Breakout che non avrebbe nulla da invidiare a certe liriche dei grandi Smiths, riuscendo a tratteggiare un precipizio di cinico e giovanile disincanto, coniugando energia (bello, quel basso fibroso da new wave inoltrata), denuncia sociale, amarezza, fatalismo e quintali di sottocutanea incazzatura. Si torna alle raffiche ad alzo zero, spezzettate e stravolte, come la giustizia impazzita delineata da Law And Order (quanto di più simile all’estetica Sex Pistols, con la benedizione ferale di un metallico assolo nel bel mezzo del bailamme), e si prosegue con Rough Trade, praticamente una cronaca di come la benemerita Island promise loro un contratto salvo poi – senza motivo apparente – defilarsi all’ultimo momento: vabbé, dirty as usual, e se non altro ci godiamo il delirio finale di questo pezzo, come sospeso su una deriva imprendibile, il boccone amaro lungi dall’essere digerito.
A Johnny Was, cover di uno straziante pezzo di Bob Marley, va il record della durata: oltre otto minuti che virano in elettricità la cruda indolenza del reggae, guadagnando in asciuttezza quello che perdono in esotismo (il basso si arriccia febbrile, la chitarra è solida e ben riverberata, il drumming battagliero), riuscendo ad ambientare lo sparo fatale in quel di Belfast con toccante spontaneità, tanto da renderlo palpito universale, un lustro prima che lo stesso facessero (per un altro tragico sparo) i primi benemeriti U2. Ma se è nella leggenda che abbiamo pescato quest’album, si deve vieppiù alla traccia seguente, quell’Alternative Ulster che inveisce, accusa, grida spasimi di coscienza, dal riff iniziale (ringhioso, affilato, totemico) al crescendo vocale di un Burns incontenibile: facile immaginarne la furia live, inevitabile rimpiangere di non averla vissuta. Chiude il programma la sbalorditiva Closed Groove, come un ordigno sfuggito al controllo dei Wire, alienazione robotica su riff seriale, fauna agghiacciante in corrispondenza del raga conclusivo, come quando non sai chi e cosa realmente ti circondi, e un “beep beep” potrebbe essere un grillo ma anche un frinire elettronico, che non conosce (non può) il dolore rannicchiato nel tempo.
Con scarso tempismo, Brian Faloon lasciò il gruppo prima ancora di godersi il successo. Sarà ottimamente rimpiazzato da Jimmy Reilly, e i successivi tre anni porteranno solo conferme: l’innodia irrequieta di Nobody’s Heroes (1980), il bruciante reportage live di Hanx (1980), infine le traiettorie più distese e compiute di Go For It (1981) e Now Then (1982). Ai primi sentori di stanchezza, la band antepone la coerenza al portafoglio, ponendo fine all’avventura. E così, tra una rimpatriata e l’altra, sempre prive di boriose velleità, arriviamo agli Stiff di oggi: c’è il solo Burns dei membri originali, e nessun rimpianto, nessuna spocchia, solo una gran voglia di suonare come si deve ciò che si deve. Ed è bello così.