Pomeriggi che s’ingoiano giornate sempre più brevi, l’umidità che stringe ossa, nervi e sensazioni, l’aria fredda che disegna il profilo dei polmoni non appena affondi il respiro. Non c’è dubbio: l’autunno inizia a dare il meglio di sé. È tempo quindi di canzoni che abbiano il coraggio di maneggiare quel che resta dei miraggi, delle prospettive, del margine palpitante dei desideri. È tempo di rimettere in circolo i Left Banke.
Poco conosciuti, ma molto amati e assai influenti, li scoprii tardi, in pieni anni Novanta, e ne rimasi folgorato. Quando se ne presentò l’occasione, dedicai una puntata della mia rubrica Lacune al loro disco più noto.
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The Left Banke – Walk Away Renée/Pretty Ballerina (1966)

New York, prima metà dei sessanta. È un bel colpo di fortuna quello che fa incontrare Tom Finn (basso) e l’inglese George Cameron (batteria), il primo già nei melodici Magic Plants e il secondo membro dei rockettari Morticians. L’intesa tra i due è tanto perfetta da calamitare l’interesse del giovane pianista Michael Lookofsky (poi ribattezzatosi Brown), il cui padre è produttore, violinista e proprietario di un più che provvidenziale studio di registrazione. Il duttile cantante di origine portoricana Steve Martin e il chitarrista Jeff Winfield completeranno la compagine: è il 1965, sono nati i Left Banke.
Siccome bisognava attendere qualche mese per il rivoluzionario fall out (doppio) di Sgt. Pepper e Pet Sounds, l’epoca in cui vide la luce il disco d’esordio dei Left Banke era ancora pervasa dalla gioiosa “forma mentis” del 45 giri. Di conseguenza – ebbene sì – Walk Away Renée/Pretty Ballerina non è un album vero e proprio, ma un assemblaggio di singoli e lati “b” usciti nel corso di un fantastico biennio (1965-66), frutto di sessioni condotte sul filo di copiosa ispirazione, palpabile entusiasmo e guizzante immediatezza: pertanto, è lecito stupire di fronte alla magica organicità delle undici tracce, linee fluide e vorticose in orbita attorno alla stessa urgenza d’anima. Non resta che passarle in rassegna una ad una, come si sgranano i momenti preziosi nella memoria.
Ed è subito la prima leccornia: Pretty Ballerina sgorga da una tenera frase di piano (tuttavia insidiosa come uno sguardo di sbieco), la melodia che prima irretisce con versi serrati e poi sembra quasi accasciarsi su una nuvola d’inconsapevolezza (quel sottile bordone d’archi, il canto in cerca di respiro), come se fosse il reportage sognante di un dolore languidissimo. Più mossa, sostenuta da chitarre in odor di jingle jangle, la successiva She May Call You Up Tonight affonda un altro po’ la lama nel cuore, spinta da quei coretti vellutati, da un basso elastico e ancora dal piano incalzante: come i Byrds ma senza voli altezza otto miglia, un po’ Beach Boys ma con le spiagge lasciate nella cartolina, quasi un presagio dei Love senza l’ombra oscura della tossicità. Nondimeno, un dubbio di psichedelia nasce tra i singhiozzi di Barterers And Their Wives, madrigale nervosetto bagnato di visionarietà seduttiva, parente alla lontana – ma non troppo – delle diavolerie sofisticate di un certo Brian Jones, con l’harpsichord a screziare pennacchi luminosi e il (disin)canto di Martin circondato da vocalizzi imprevedibili.

C’è del beat nell’aria, Brown lo annusa e pesca dai tasti un riff clamoroso in apertura di I’ve Got Something On My Mind, sbuffo energico e immalinconito, liberatorio come un sorriso steso sul malumore, lo stesso rintracciabile nell’impudenza errebì di Let Of You Girl, dove chitarre arricciate e scheckerate (alla maniera che sarà poi magnificamente “equivocata” nel reggae) insidiano la fuga ormonale di quell’harpsichord ormai autentico mattatore della scena: entrambi i pezzi colpiscono per la qualità inesorabile della struttura, con i bridge a tirare le fila delle emozioni in un acme irripetibile di velluti e spinterogeno. La successiva Evening Gown gode dell’asciutto chitarrismo portato dal session man Tom Feher, e si sente: tra brusche pennate e frasi ubriacanti di tastiere, il pezzo dischiude un’asprezza (ben secondata dalla voce di Miller) che non può non ricordare certe scorribande tritacervello a firma The Who.
Siccome si giunge ora alla title-track, è giusto svelare un piccolo segreto (di Pulcinella): Walk Away Renée, così come le prime due tracce del programma, nasce dall’infatuazione del buon Brown per la fidanzata di Finn, evidentemente una tipa notevolissima visto quello che ha “provocato”. Alzino le orecchie i fans di Belle And Sebastian, perché qui c’è tutto quello che cercano, e forse qualcosina di più: è una canzone sfacciatamente bella, benedetta dall’ormai consueto harpsichord e da un profetico bridge di flauto, forse appena troppo addolcita dalla cospirazione senza posa di violini in lacrime. Evasi i consueti 3 o 4 repeat (anche 5 o 6, se la situazione sentimentale e/o climatica lo richiede), si passa oltre: ascoltando il country-rock di What Do You Know? viene in mente più la rilettura malandrina che del genere fecero i Beatles piuttosto che l’accorata devozione di Gram Parsons o quella beffarda/amara di Dylan.

Decisamente meno inquadrabile è il miracolo d’oscurità e madreperla che ha per titolo Shadows Breaking Over My Head, sorta di composizione da camera contagiata dal soul e percorsa da fremiti jazz/rock (il pensiero vola ai migliori XTC), con Martin eccellente anche sui registri medio-bassi. Alla chiusura dei giochi pensano prima l’irrequieta I Haven’t Got The Nerve, errebì dagli impasti vocali pregevoli e dalla chitarra quasi funky, poi Lazy Day, acidissima fin dal riff sfrigolante (così simile a quello di Satisfaction), escursione scellerata sul terreno caro ai 13th Floor Elevator con le corde vocali tirate al limite e il contrappunto di quelle zampate pigre di basso e piano. Vien voglia di fare subito un altro giro, ma vabbè…
Finito il disco, per i Left Banke iniziano le rogne: Brown incide assieme al padre e altri musicisti alcuni pezzi che poi pubblica – volendo sfruttarne la notorietà – a nome della band. L’inevitabile bagarre porta alla cacciata del tastierista, il cui nome spunta comunque nei crediti di The Left Banke Too (1969), prova seconda ancora ispiratissima e attraversata da un provvido afflato errebì. Se Brown va a consolarsi con gli affini Montage, per i Left Banke si tratta del capolinea, non considerando la parziale reunion del 1978 – che pure fruttò un terzo album, Strangers on a Train, pubblicato solo nel 1986 – e quelle successive, altrettanto effimere.
Avventura dunque fugace, eppure titolare di una clamorosa influenza sulla contemporaneità, dai già citati Belle And Sebastian ai Magnetic Fields, dai Clientele ai nostri – perché no? – Perturbazione, ma una certa attinenza “ambientale” è senz’altro ravvisabile anche negli sviluppi pop di Flaming Lips e Mercury Rev.
Con tutto ciò, qualcosa di assolutamente unico accompagna l’ascolto del corpus leftbankeiano, un’emozione levigata e dolente, brusca e gioiosa, impalpabile come bava di lumaca. Irripetibile, in qualche strano e delizioso modo. Cercando nei mercatini (reali e virtuali) si dovrebbe trovare abbastanza bene quell’autentico scrigno di delizie che è There’s Gonna Be A Storm (The Complete Recordings): fatelo vostro, ne vale davvero la pena.
[…] a disposizione. Canzoni che – come si dice – non spaccavano la membrana degli altoparlanti: dei Left Banke la delicata trepidazione, dei Galaxie 500 il fangoso onirismo, dei Velvet Underground la decadenza […]
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