Quale disco considero il mio migliore affare? Non il miglior disco, no. Intendo: il miglior acquisto. Quello che in relazione al prezzo, alle aspettative, alla quantità e qualità degli ascolti si è rivelato negli anni il più, come dire, soddisfacente.
Non è solo un interrogativo da maniaci terminali di questioni rock, è anche del tutto fuori corso, obsoleto, spazzato via dalla scena con lo scopettone del download prima e dello streaming poi. Eppure, qualche volta mi è capitato di chiedermelo. Ok: più di qualche volta. E sempre, sempre, mi sono risposto: Singles Collection – The London Years dei Rolling Stones.
L’edizione in mio possesso è un triplo CD contenuto in un box abbastanza spartano ma ricco di meraviglie, vale a dire tutti i lati A e B dei 45 giri usciti dal ’63 – data dell’esordio discografico Come On, cover di Chuck Berry – allo spettacolare 1971 dei Brown Sugar e dei Wild Horses, con tutta la goduria, gli svarioni e le scelleratezze che stanno nel mezzo. Fanno cinquantotto canzoni, una carrellata tumultuosa sugli anni eroici della band guidata dagli efferati Glimmer Twins: ci sono gli spasmi RnB degli esordi (la formidabile cover di Not Fade Away, la febbrile versione di I Wanna Be Your Man prestata dai “rivali” Lennon/McCartney), l’esplosione come compositori (il primo originale firmato Jagger/Richards fu Tell Me del ’64), quindi l’approdo ai capolavori che li avrebbero proiettati in cima al mondo (Play With Fire e Satisfaction, usciti a poca distanza nel ’65). Traccia dopo traccia, t’imbatti nell’estro sonoro di Brian Jones, in quel suo esotismo così intrigante e misterioso, vai a sbattere nella sfacciatissima tracotanza di pezzi come Have You Seen Your Mother Baby, Standing In The Shadow? e Who’s Driving Your Plane?, resti folgorato dalle fregole psych altezza Their Satanic Majesties Request (con She’s A Rainbows a svettare luminosa), ti fai scudisciare da quel prodigio di energia animale che è Jumpin’ Jack Flash, anneghi nel controverso fatalismo di You Can’t Always Get What You Want, attraversi insomma tutto quel palpitare di irriverenze giovani, quell’entusiasmo crudo e avventato che diventa via via consapevolezza sprezzante e sguardo spigoloso, una carrellata esaltante che s’interrompe sulla soglia del leggendario esilio, suggello dei formidabili “anni londinesi”.
Comprai questo triplo CD su un catalogo di vendita per corrispondenza, dove lo pescai in mezzo ad altri – a molti altri – titoli in offerta (passavo ore a spulciare e selezionare in quel mare di delizie, facendomi i conti in tasca, cercando – inutilmente – di tenere a freno la bestia). Se non ricordo male, lo pagai poco meno di ventimila lire: fu un investimento non da poco, tenuto conto che alcuni CD erano prezzati cinquemila o persino tremila lire (va da sé che ne ordinavo una ventina alla volta). Aggiungo che all’epoca – circa metà anni Novanta – non era facile reperire informazioni su cosa stessi effettivamente comprando: le raccolte, soprattutto, si rivelavano non di rado dei pacchi clamorosi. Nel caso di Singles Collection, le ventimila lire scarse divennero un gettone simbolico per avviare una giostra che da allora non ha smesso di girare, e che all’inizio mi procurò una vera e propria dipendenza. Soddisfazione che aumentò considerevolmente quando il box sparì dalla lista dei titoli disponibili, per ricomparire qualche mese più tardi a un prezzo quasi raddoppiato. Pur congratulandomi con me stesso per il fiuto (o botta di culo che dir si voglia), sapevo che lo avrei considerato un affare clamoroso anche se mi fosse venuto a costare tre, cinque o dieci volte tanto (se non si ha molta familiarità col concetto di “inestimabile”, un caso come questo può aiutare a chiarirsi le idee).
Dopodiché, accadde quel che sappiamo. Nel volgere di pochi anni, anzi mesi, iniziarono a succedersi stagioni diverse e decisive: quelle dei masterizzatori, del peer-to-peer, di Youtube, di Spotify e via discorrendo. Le idee più consolidate vacillarono, sottoposte a un processo di progressiva e irreversibile liquefazione. Attualmente Singles Collection – The London Years è disponibile nei vari store online a qualcosa meno di trenta euro. Oppure – oppure – lo si può ascoltare comodamente via streaming sul proprio music provider di fiducia. Un aspetto, quest’ultimo, potenzialmente (e praticamente) in grado di annullarne il valore in quanto supporto. Tuttavia, per quel che mi riguarda, rimane il simbolo concreto di tutto ciò che di sorprendente, sconcertante, appagante, curioso ed esaltante possa attendermi da quell’entità un tempo nota come disco, nel senso di oggetto e di forma espressiva (non esclusa la variante compilation, qui al suo apice).
Continuerò a pormi la domanda di cui sopra, lo so, e continuerò a darmi la stessa risposta.
E voi? Qual è stato il vostro migliore disco/acquisto/affare?
“The Kids Are Alright” comprato a 8.000 lire nell’89 nell’usato del negozio Distorsioni. Solo il brano A Quick One, While He’s Away vale quel prezzo, per non parlare delle live rarities (I Can’t Explain, al picco della loro potenza di fuoco), l’incandescente performance televisiva di Magic Bus, una tarda cazzutissima versione di My Wife scritta da Entwistle e una di Won’t Get Fooled Again che genera una voglia compulsiva di comprare una vespetta e dirigersi a manetta verso il dirupo del Circeo, lasciandosi cadere – certo – cinque metri prima.
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Conosco quella versione di I Can’t Explain, cosa doveva essere stare sotto al palco in quel periodo non so immaginare.
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[…] e Stranglers) che ben si accorda a quegli anni cementizi, intossicati e industriali. A proposito di Stones, Don’t Look Down va a muoversi in territorio Black And Blue con bella disinvoltura, mediando […]
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[…] i più sanno mediamente poco. In fondo accade con tutti i nomi più celebri: ad esempio con Dylan, Stones, Beach Boys, persino col nostro Battisti (del quale vasta è la non conoscenza di capolavori quali […]
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[…] firmato da una band che fino a pochi mesi prima sembrava una versione più rude e acida dei Rolling Stones (il chitarrista Dick Taylor del resto aveva fatto parte della versione embrionale della band di […]
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[…] nella seconda metà dei ruggenti Sessanta. Per la sua spericolata frequentazione con la cerchia Stones (in particolare con Jagger) e la disponibilità a perdersi nell’abbraccio di sostanze poco […]
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[…] Tonk Woman – ad esempio – erano esplosive. Per quanto ami le versioni di Creedence e Stones, quelle dei Turner non avevano nulla da invidiare. […]
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[…] anticipando la stagione della disco music, preconizzando d’altro canto le coniugazioni soul degli Stones (Black And Blue viene inciso in quello stesso anno ma vede la luce solo nell’aprile del ’76). […]
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[…] porre un accento musicale forte e ben riconoscibile alla proposta, Bowie guarda esplicitamente agli Stones più sferraglianti, quelli del piglio primitivo Sixties e della vena black sgranata in Sticky […]
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[…] centro dell’obiettivo anche quando la terra manca sotto i piedi. L’abisso è lì, cari Stones di quasi 50 anni fa, ma siete abbastanza incoscienti e strafottenti da convincervi che non ci sia o […]
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[…] nel linguaggio dei media (l’apoteosi è stata forse raggiunta con l’esibizione degli Stones al Togheter At Home), che destino avrà? Finirà con l’ultima fase di contenimento o sarà […]
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[…] abbondanti, oscuri e tumultuosi apriva alla grande Beggars Banquet, uno dei più grandi album degli Stones e quindi, va da sé,uno dei più grandi album di ogni tempo. Correva il 1968. Il romanzo a cui […]
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