Voglio bene a questi ragazzi di Glasgow (saranno sempre dei ragazzi, per me). Nulla potrebbe diluire l’affetto, la stima, la pura riconoscenza che nutro per loro. Li amo da quando, sul finire dei Novanta, mi lasciarono sbigottito.
In quel tramontare di decennio-secolo-millennio, tra caciare grunge fuori tempo massimo, pregnanti scenografie trip-hop, l’hip-hop che mordeva le caviglie per guadagnare posizioni, certe tardive metamorfosi post e con l’effimero riflusso del NAM alle sue primissime battute, la comparsa sulla scena dei Belle And Sebastian fu una specie di shock. Rappresentavano la possibilità di un rientro alla base con la grazia di uno sguardo (uno spirito, un corpo) giovane, il recupero di forme quasi dimenticate, il dissolversi di un’amnesia. Il pop che avremmo voluto sentire diffondersi dalla radio dei nostri sogni e che da un pezzo non osavamo chiedere. O desiderare.
Nelle loro canzoni distinguevi influenze dalla rarità quasi esotica, tipo i Sixties dei sogni cameristici Left Banke, l’arguta sottigliezza di Donovan, il fosco languore di Nick Drake, ma anche l’impeto scapigliato del tweepop, lo spavaldo abbandono degli Smiths, la solennità amniotica dei Felt…
L’ingrediente fondamentale però, a mio avviso, era un altro: avvertivi in Stuart Murdoch e compagni una sorta di precarietà illuminata, come di chi – soggiogato da un’esistenza periferica, ricca di sogni non mantenuti e traiettorie marginali che andavano a spegnersi in un ambiente chiuso, ostile, nel migliore dei casi banale – non si perde d’animo e cerca, con garbo e tenacia paragonabili al talento, un riscatto costruito con un mattone sull’altro di sensibilità, consapevolezza, empatia e sguardo poetico.
Di questo “riscatto gentile” le canzoni erano un riflesso puntuale, scorci minimali d’una franchezza e un intimismo disarmanti, atti d’amore per quella vita così marginale eppure – e quindi – piena, scampata all’antagonismo a perdere dell’anestesia metropolitana. Nell’esordio Tigermilk c’è già tutta – tutta – la polpa di questa poetica, ahimé progressivamente smarrita negli anni a favore di un’autorevolezza sempre più nitida, di un entusiasmo – come dire – professionale.
Dopo il bellissimo Fold Your Hands Child, You Walk Like a Peasant (2000), la competenza dell’appassionato totale (“We’re not terrific but we’re competent”, come cantano in This Is Just A Modern Rock Song) ha lasciato il posto sempre più a una padronanza festosa e a tratti ispirata.
La band si è idealmente scrollata dalle spalle la dimensione periferica, adeguandosi – per così dire – alla mancanza di centro (o alla centralità diffusa) di quest’epoca iperconnessa. In altre parole, la band di Glasgow è diventata una band di tutti, una band globale, dallo sguardo diffuso, reticolare. Anche se oggettivamente possiamo parlare di una evoluzione (sicuramente di una crescita in termini di penetrazione e di pubblico), dal mio punto di vista ci hanno perduto molto. Si tratta, è chiaro, di un “problema” generale, che nei Belle And Sebastian – per la natura di ciò che sono stati – acquista particolare evidenza.
[…] sgusciavano l’anima più british portandosi con disinvoltura sul terreno dei contemporanei Belle And Sebastian e Beth Orton, nel complesso a prevalere era quel falso movimento tra inquietudine e immaginario, […]
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[…] 7 settembre 1998 usciva The Boy With The Arab Strap dei Belle And Sebastian, probabilmente il disco che li ha consegnati a una dimensione adulta, ma non del tutto: è come se […]
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[…] una cinquantina di minuti). Facevano eccezione certi meravigliosi EP, tipi quelli dei Belle & Sebastian (ne riparleremo). Comunque, quel 16 novembre del 1999, a pochi giorni alla fine del secolo, dal […]
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[…] una tipa notevolissima visto quello che ha “provocato”. Alzino le orecchie i fans di Belle And Sebastian, perché qui c’è tutto quello che cercano, e forse qualcosina di più: è una canzone […]
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[…] dei Rock Bottom, dei Five Leaves Left, degli Astral Weeks, del terzo dei Velvet Underground, dei Tigermilk. Dovunque potessi sottrarmi e delimitarmi, avrei […]
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[…] Come dicono i sempre cari Belle And Sebastian: […]
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