Giro di vite: il senso di On The Beach per il crepuscolo

Non era un buon momento. Almeno questo era chiaro. L’estate del 2001 si stava consumando, per quel che mi riguarda, in una specie di apnea. Economia del respiro: la sensazione che tutto stesse precipitando e quel precipitare fosse mimetizzato da normalità al punto da apparire lento, denso, quasi immobile. Una stagnazione vertiginosa di cui, a farci attenzione, potevo avvertire l’odore. Questo il motivo dell’apnea: ogni respiro portava il sentore strisciante del giro di vite.

Bolzaneto

Ricordo di averlo detto a un amico, poco prima del G8 di Genova. Eravamo alla seconda birra (la terza?), parlavamo di politica, di lavoro, di questioni generali, e me ne uscii più o meno con queste parole: “non so come spiegarlo, lo sento nell’aria, il giro di vite“. E arrivò, quel giro di vite: a penetrare, sovvertire, colpire al cuore le certezze, sgretolare quello che pensavi consolidato, inviolabile. Piazza Alimonda e Bolzaneto sembrarono fin da subito ben più che luoghi connotati geograficamente: si percepivano come fratture, punti di accecante non-ritorno.

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Pochi giorni più tardi, alla metà di agosto, io e mia moglie dovevamo partire per un viaggio organizzato da tempo. La meta era Salvador De Bahia, la città più nera del Brasile, col suo contrasto feroce tra la solarità godereccia del litorale, il languore accogliente e misterioso dei quartieri storici (del cui fascino si era nutrita la penna magica di Jorge Amado), e la cruda desolazione delle favelas, tutto quello strisciante segregazionismo mimetizzato da tolleranza.

Il mio stato d’animo, per vari motivi anche personali, era quello di chi sa di doversi leccare un bel po’ di ferite. Al momento di fare i bagagli arrivò, come previsto, il momento cruciale: scegliere quali CD mi avrebbero accompagnato per i successivi quindici giorni. Ne selezionai una ventina in tutto. Di questi, ne ricordo soltanto uno. Di più: ricordo così bene la determinazione che mi portò a sceglierlo da sentirla ancora in mezzo al petto, tra le mani. Si trattava di On The Beach di Neil Young.

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In CD non è esistito fino al 2003. Non ufficialmente, almeno. Il rocker canadese si opponeva alla sua pubblicazione sul supporto digitale, motivando la scelta con una vaga insoddisfazione per la resa audio. Un’ostinazione che gli guadagnò manifestazioni di odio feroce e cordiale da parte di noi appassionati di rock – e di Young in particolare. Ma ormai tutto era cambiato: nell’epoca post-Napster i vinili venivano rippati e convertiti in MP3 più o meno decenti, per la gioia di quanti non possedevano più (o non avevano mai posseduto) un giradischi e che quindi potevano di nuovo o finalmente godere della magnifica desolazione di pezzi come Ambulance Blues e, appunto, On The Beach.

In attesa della ulteriore rivoluzione introdotta dagli MP3 player (l’iPod sarebbe stato presentato al mondo solo nell’ottobre del 2001), se volevo rendere portabili quei file ero costretto a una pratica abbastanza spregevole: masterizzavo gli MP3 su CD. In alcuni casi, provvedevo a confezionare il dischetto con tutti i crismi, stampando la copertina su carta di qualità. Risultato: possedevo, bene o male, On The Beach in CD. La qualità audio era incerta e croccante, con quel suono vinilico che sembrava masticato da un androide, ma potevo starci. Quel CD sarebbe stato incontestabilmente uno di quelli che avrei portato con me.

Neil pubblicò On the Beach il 16 luglio del 1974, tra Time Fades Away (1973) e Tonight’s The Night (1975). Assieme a questi costituisce la cosiddetta “trilogia del dolore”, causata in primis dalla tragica morte dei compagni di ventura Danny Whitten e Bruce Berry, ma a cui va aggiunta la paralisi cerebrale diagnosticata al figlio Zeke e il dissolversi della relazione con Carrie Snodgress. Depressione e desolazione in On The Beach diventano il carburante di un lirismo fosco eppure lirico, il cui procedere rende la disperazione simile a una bestiolina che si accuccia nel cuore, disposta a sollevare lo sguardo oltre la pioggia, a concepire la possibilità di esistere oltre il tritacarne emotivo del dolore, malgrado le vampe di rabbia al confine della follia (la controversa Revolution Blues, intrisa di riferimenti al delirio omicida di Charles Manson), nonostante il senso di fine corsa esistenziale («All my pictures are fallin’/from the wall where/I placed them yesterday/The world is turnin’/I hope it don’t turn away»).

Oltre ai molti motivi, diciamo così, personali che chiudevano Neil Young all’angolo – un angolo scuro e ostile – c’era senz’altro anche un sentimento collettivo, mi spingerei a dire epocale: il crepuscolo di un’epoca, il definitivo sgretolarsi dell’impalcatura di sogni, intuizioni e speranze edificata nei Sixties, la preveggenza – ormai quasi evidenza – di un periodo storico all’insegna di un disincanto spietato, plumbeo, inevitabilmente tragico.

candomblé

Il viaggio brasiliano fu strano, esaltante nei suoi momenti più estemporanei (la visita a una missione annidata da qualche parte nell’isola di Itaparica, un imprevisto candomblé) e costantemente sul punto di naufragare (una sbronza devastante, certe strade di campagna funestate da crateri, smarrirsi nel bel mezzo della favela…): insomma, fu un’esperienza indimenticabile. Al ritorno, ci attendeva una normalità ancora tesa ma tirata a lucido, pronta per venire devastata dagli attentati al World Trade Center. Viaggiare, attraversare controllo bagagli e frontiere, alzarsi in volo: nulla di tutto questo sarebbe stato mai più lo stesso.

Quando ripenso alla mia determinazione nel portare con me quel precario CD di On The Beach – che ascoltavo quasi ogni sera, nel nostro alloggio umido in mezzo al quartiere di Itapuã assediato da zanzare gigantesche – la interpreto come una indecifrabile coincidenza: come se, a quasi tre decenni dal cupio dissolvi con cui si era sintonizzato Neil Young ai tempi della “trilogia del dolore”, in qualche modo mi fosse capitato di intercettare frequenze simili, altrettanto – anche se diversamente – cupe e catastrofiche, come nubi che si addensavano all’inizio di questo millennio che non possiamo certo definire felice.

La natura di certi dischi è di oltrepassarsi. Ecco perché poi qualcuno arriva a chiamarli capolavori.

Qui una mia recensione scritta nel 2002 per Sentireascoltare.

16 commenti

  1. È stato il mio “primo” disco di Neil Young, l’ho successivamente ricomprato in cd, anche se lui mi avrebbe rimproverato, ma poi mi avrebbe per forza perdonato per avergli comprato uno dei suoi archives. Comunque penso che On the beach sia uno di quelli che spicca anche quando stai ascoltando tanta roba insieme, non può non entrarti dentro in maniera sorprendente, e segnare un “prima” e un “dopo” quel momento lì.

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