Molte fonti ufficiali lo datano al 22 giugno del 1979, altre riportano il 2 luglio. Male che vada, lo festeggiamo con dieci giorni di ritardo. Non avevo ancora dieci anni quando Rust Never Sleeps vide la luce, ne avrei avuti circa venti quando lo conobbi per intero, ne sono passati quasi trenta da allora. È uno di quei casi, questo disco, che mi fa riflettere su molte cose, non tutte legate alla musica che contiene, ma anche a come, in qualche strano modo, certi dischi (certe discografie) entrano a far parte della tua vita e – in modo sempre piuttosto strano, quasi magico – prendono possesso del tuo rapporto con il tempo, si mettono tra te e il tempo, diventano una sorta di moderatore, di traduttore. Per certi versi persino un carnefice.
In uno dei diari scolastici della mia adolescenza – che avevo l’abitudine di riempire con ogni tipo di scarabocchi, citazioni e frasi… adolescenziali – ricordo una pagina dedicata agli Young musicali che, per così dire, riflette quelle che erano le mie predilezioni all’epoca. Scrivevo: “Neil Young: il pane; Angus Young: la cioccolata; Paul Young: la merda“. Era quasi tutta posa: volevo prendermela con quanti esaltavano l’insulso soulman inglese, all’epoca all’apice del successo grazie a cover carezzevoli tipo Love Of The Common People (che pure, confesso, non mi dispiaceva). Se il luciferino chitarrista degli AC/DC era ovviamente il mio idolo, Neil, lo conoscevo appena (non avevo neppure un suo disco). Sarà stato il 1983, vagavo nella mia adolescenza atteggiandomi a rockettaro con tendenze metal, e nonostante ciò rispettavo Neil Young di cui conoscevo giusto un pugno di canzoni: niente male. Aggiungo che gli anni ’80 non erano il massimo, diciamo così, per innamorarsi delle cose nuove del Loner canadese, difatti non me ne innamorai. Ma quel giorno, in auto col mio amico, accadde: fu grazie a My My, Hey Hey.
La cassetta nell’autoradio era una di quelle compilation fatte con più cuore che raziocinio, grazie al cielo. Pezzi da Old Ways, American Stars’n’Bars, Comes A Time si alternavano con una certa inclinazione traditional che non mi si confaceva granché. Ma gran parte delle tracce in programma provenivano da Rust Never Sleeps: ricordo Powderfinger e Pocahontas, ovviamente, ma soprattutto c’erano My My, Hey Hey e il suo corrispettivo a cuore nero e tumultuoso, Hey Hey, My My. Non so se ne fui più travolto o posseduto, probabilmente entrambe le cose. Quella chitarra rugginosa che spellava fantasmi di cui potevi avvertire il dolore, l’equilibrio luccicante tra fatalismo e furia, quel senso prima sonoro e poi (quando avrei recuperato i testi) verbale, sgranato da una voce che sentivi preda di una allucinazione per ogni consapevolezza, fino a non saper distinguere dove finissero le une e iniziassero le altre. Ne rimasi stregato.
Le settimane successive furono una rincorsa a recuperare tutto quanto riuscissi a ottenere, vi lascio immaginare cosa mi riservarono dischi come Everybody Knows This Is Nowhere, Harvest, Tonight’s The Night, Freedom, i pazzeschi Live Rust e Weld, Zuma, poi il recente Ragged Glory e il nuovo Harvest Moon. Per On The Beach avrei dovuto attendere un po’, ma non molto (qualcuno un giorno me lo duplicò in cd da mp3, altri tempi…), mentre Time Fades Away, Re-Ac-tor e Trans li trovai fortunosamente in cassetta. Ma tutto, tutto, iniziò da quel Rust Never Sleeps parziale ascoltato una sera nell’auto di un amico. Fu un imprinting incredibile. Uno spartiacque, una vera e propria rimodulazione della mia idea di ascolto: da allora i concetti di malinconia, di rabbia, di pulizia formale, di visione, di redenzione, di racconto, di ruvidità e trasporto nel rock subirono uno scossone da cui non si sarebbero più ripresi.
Ora, il punto è che quel contatto avvenne proprio nel periodo in cui la mia vita si stava incanalando in un percorso ben definito. Mi stavo, in altre parole, sistemando. Sia dal punto di vista affettivo che professionale. E lo sapevo, lo avvertivo. Lo volevo e in parte ne soffrivo. Perché mi era chiaro tutto il catalogo di possibilità che si aprivano mente altre possibilità e altri percorsi diventavano inaccessibili. La ruggine che mi ha trasmesso la musica di Neil, quel fiero, stanco e abbacinante “rock’n’roll is here to stay“, quei versi che s’incastravano controcorrente nel flusso di ciò che sempre più ero (“It’s better to burn out than is it to rust“), mi hanno dato quella scossa, quella vibrazione, quel mezzo di contrasto che mi hanno consentito di restare, bene o male, vivo.
Quante volte, quante, ho ringraziato di questo il destino, le divinità della musica, quel mio pressoché inconsapevole amico e la sua cassetta nell’autoradio. Quanta gratitudine, per Neil Young e i Crazy Horse.
[…] smentisco: niente polvere. Quanto alla muffa, non ci giurerei (ma tanto la muffa, parafrasando zio Neil, non dorme mai). In ogni caso, ok, qui è quasi tutto un celebrare anniversari, un disseppellire […]
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[…] quadri di ex-intonaco colonizzato da un organismo muto e maleodorante. Parafrasando il vecchio zio Neil Young, “mold never sleeps“: ecco, questa è la seconda cosa a cui ho pensato. Di fatto, nella […]
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Grande grande grande!!! Amo NY.
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[…] emotivo dei Red House Painters ma si ferma un attimo prima di cadere nel vuoto, o il passo da Neil Young (ancora lui) lasciato candire tra tromba e tastierine dreamy in When You’re Drifting. Il […]
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[…] dopo anni la voglia abbastanza impellente di comprare i nuovi dischi dei Dream Syndicate e di Neil Young. Due dischi molto diversi, e non intendo solo stilisticamente. Persino opposti se consideriamo il […]
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