Alla fine del 2004 mi fu chiesto di scegliere quale fosse l’album che più mi era piaciuto. Se non ricordo male, si trattò di una scelta facile. Ecco quello che scrissi per il Mucchio:
“C’è nel folk psichedelico di fine sessanta-inizio settanta un senso di rivoluzione sospesa, di vuoto pneumatico, di frontiera pietrificata in un miraggio luminoso. Il Sogno Americano colto nello iato tra impossibilità e ineluttabilità, tra la sua imposizione mistica e lo spietato cinismo, tra l’ebbrezza delle prospettive e l’atroce carneficina quotidiana.
Di quella intuizione – e delle sue trasfigurazioni operate via via dai gruppi new wave fino agli attuali elettronici – i Wilco sono oggi tra i più credibili propugnatori, come dimostra la post-modernità angosciosa degli ultimi due album, attraversati da uno stesso palpito di vita in lotta col tormento di esistere. Problematico ma affabile, apocalittico però lieve, di una crudezza impalpabile, di una drammaticità mai melensa, A Ghost Is Born è – come Yankee Hotel Foxtrot – un’istantanea impietosa dalle radici frastagliate e profonde, ramificata verso un domani che fa un bel po’ paura. Ovvero, un gran bel disco”
A Ghost Is Born usciva il 22 giugno del 2004. Qui trovate la mia recensione d’epoca per Sentireascoltare.
[…] dopo di quello ben altri capolavori verranno. Ma Summerteeth, a modo suo, […]
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[…] del “sentimento americano” (un po’ come fanno sul fronte del folk perturbato gli ultimi Wilco), fronteggiando nella penombra dei riflettori l’assedio di interrogativi dirimenti e spietati, […]
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[…] tutt’ora un grandissimo album, sebbene col tempo abbia finito col preferirgli il successivo A Ghost Is Born. Ma non lo ascoltammo il 23 aprile del 2002, bensì prima, nell’estate del 2001, quando YHF […]
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