Paranoid Memory: una domanda agli /handlogic

Mi diverto sempre alla finale del Rock Contest, la storica manifestazione per band emergenti organizzata dall’emittente fiorentina Controradio. La partecipazione è ampia ma la selezione è spietata, ragion per cui i gruppi che arrivano a giocarsi la vittoria sono quasi sempre di buono o buonissimo livello. Devo dire però che raramente ho provato la sensazione di trovarmi di fronte a musicisti con un’idea espressiva davvero forte, tanto da farmi immaginare per la loro carriera sviluppi importanti o persino – ehm… – inimmaginabili.

Tra quei pochi nomi che mi hanno suscitato sensazioni del genere (non sempre rivelatesi – ahimé – profetiche), citerei senz’altro gli Offlaga Disco Pax e Samuel Katarro (poi conosciuto come King Of The Opera), oppure – passando ai finalisti che non si sono aggiudicati il primo posto – i Rio Mezzanino e gli Amarcord. Caratteristica comune tra queste proposte diversissime – oltre alla benedetta gioventù con tutto il corollario di energia, entusiasmo e sacrosanta sfacciataggine – era il possesso di una visione intensa e già ben strutturata, capace di attivare nel pubblico quella strana, irresistibile effervescenza tra meningi e ventricoli, tipo un cocktail ben shakerato a base di sconcerto, meraviglia e un pizzico di sana inquietudine.

Mi e capitato di avvertire un’effervescenza simile anche un paio di anni fa con gli /handlogic. Fiorentini, poco più che ventenni, nella serata finale dell’edizione 2016 – che vinsero piuttosto nettamente – riversarono sul palco una calligrafia ibrida (jazz, rock, elettronica, soul, downtempo…) dimostrando una padronanza da musicisti navigati, col sovrappiù di un concept live essenziale ma curato (vedi quei fiati che d’un tratto risuonarono dalla galleria, stringendo di colpo il pubblico in una specie di assedio sonoro tra il festoso – è pur sempre spetttacolo, baby – e il malinconico). Quella sera mi lasciò in dote un solo dubbio su di loro, legato a un difettuccio che intercetto spesso nelle giovani band: mi sembrarono troppo puliti. Come se in quel loro tenace inseguimento di una forma scolpita in ogni dettaglio, la sagoma dell’espressione finisse per rimanere attardata di qualche centimetro.

Pochi mesi dopo, un buon EP omonimo non aveva dissipato del tutto quelle perplessità, come invece ha saputo fare l’ottimo primo album Nobodypanic, da poco uscito per l’etichetta Woodworm. Se scrivessi ancora recensioni, dedicherei almeno la quota standard di battute al dosaggio algebrico eppure vibrante tra elementi rock, post rock, elettronica, inclinazioni jazzy e soul sintetico, quindi passerei a indicare i riferimenti (da Notwist ai Radiohead passando da James Blake, Broadcast e – perché no? – Level 42) e infine citerei le canzoni che più mi hanno colpito (l’impeto obliquo e malmostoso di Communicate, gli spasmi post della lunatica Scribbles, quella Perched che stempera malanimo e abbandono, un filo ossuto di speranza e tutto un catalogo di tumulti impliciti).

Soprattutto, non potrei evitare di mettere in rilievo la traccia conclusiva, vale a dire la cover di Paranoid Android. Rispetto a questo caposaldo del rock a cavallo tra vecchio e nuovo secolo/millennio, gli /handlogic non dimostrano alcun timore reverenziale: ne metabolizzano e corrodono la melodia, sottopongono la struttura labirintica dell’originale a un processo di astrazione e solidificazione assieme, come se ne avessero percorso l’arteria fino al cuore perdendo (parzialmente) il senno lungo la strada. Il risultato è coraggioso, nel complesso riuscito anche se forse non riuscitissimo (converrete che ogni paragone con l’originale sarebbe come minimo gratuito), in ogni caso testimonia il bisogno e la capacità di cercare anche dove sembrerebbe non esserci più nulla da scoprire.

Ma al di là di meriti e demeriti della loro rilettura, quello che mi ha davvero colpito nella scelta di questa cover è appunto il fatto che sia stata scelta. Già da prima di ascoltarla – cioè: appena l’ho vista in scaletta – mi sono chiesto: qual è oggi il senso di Paranoid Android per dei ragazzi (musicisti) circa ventenni, ovvero venuti al mondo più o meno quando sul mondo pioveva il disco – l’asteroide Ok Computer – che la conteneva? Non ho potuto fare a meno di pensare a me, ventenne, attorno alla fine dei “meravigliosi” Eighties, quando mi trapanavo spesso e volentieri i timpani (e le loro ramificazioni, giù fino alle coronarie) coi vari Led Zeppelin, Hendrix, Beatles, Stones e via discorrendo.

Quei gloriosi campioni della fase imperiale del rock nella cuspide tra 60s e 70s – ovvero: di venti anni prima – mi sembravano, va da sé, vivissimi, eppure ne avvertivo in pieno lo status di monumenti. Di più: se li ascoltavo era forse proprio per il senso di frattura col presente, di passato che imponeva quella diversa vitalità musicale, il retaggio di un ruolo che il rock iniziava a perdere e di cui sperimentavo una sorta di nostalgia preventiva, tracciando nel frattempo un perimetro entro il quale intendevo diventare quel me stesso che sentivo di essere. Era una questione identitaria prima che di appartenenza: in attesa del grunge, del lo-fi, del brit, del post-rock e insomma di tutto quel ben di Dio che avrebbe reso fragorosi i Nineties, per il me ventenne ascoltare canzoni risalenti più o meno al tempo della mia nascita significava sintonizzarmi con un passato irrecuperabilmente passato.

Mi chiedo cosa significhi invece per un ventenne di oggi una canzone come Paranoid Android. Forse qualcosa di simile a ciò che per me rappresentavano una Helter Skelter o una Voodoo Child, ma qualcosa mi dice – pur sforzandomi di togliere l’ingombro di me stesso e del mio percorso in questa prospettiva – che le cose non stiano esattamente così. Qualcosa mi dice che il passato si stia schiacciando sempre più sul presente, e che stia accadendo a causa della disponibilità e simultaneità del passato – o almeno di tutto il passato documentato – in un adesso che in ragione di ciò eccede se stesso, ridefinendosi come dimensione di tempo aumentato. In altre parole, il passato non è mai stato tanto raggiungibile, conoscibile, esperibile come oggi, perciò non è mai stato tanto presente.

La disinvoltura con cui gli /handlogic si sono impossessati di Paranoid Android, la naturalezza con cui hanno tradotto quel complesso articolato di segni (stilemi, sonorità, temi, timori) fin de siècle in una sequenza di suggestioni contemporanee, mi spinge a credere che per loro non si tratti di una canzone appartenente a un’altra epoca (come era per me una Stairway To Heaven o una Simpathy For The Devil), casomai più il modo in cui da un’epoca appena consumata si continua a guardare al presente, il presente, nel cuore del presente: di fatto, una canzone contemporanea.

Probabilmente tutto ciò è frutto di una (mia) suggestione, che evito di argomentare più a fondo (anche se ne sarei tentato). Anche perché a questo punto mi sembrerebbe assai più interessante chiederne conto ai ventenni (meglio ancora: agli stessi /handlogic). Più interessante e – aggiungo – più corretto. Per questo motivo, in spregio ai vari gradi di separazione tra me e loro (a partire da quelli anagrafici), credo che sia giusto farlo. Anzi, lo faccio. Chiedo ai ventenni (agli /handlogic in particolare): cosa significa Paranoid Android per voi?

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