Finalmente il sole. I profumi. La temperatura. La consistenza dell’aria. Sì, amici, compagni, fratelli: credo che stia arrivando l’estate. Credo che stia arrivando davvero. Deve essere per questo, sì, forse è proprio per questo che è accaduto: da un silenzio improvviso, prima che l’autoradio iniziasse a riprodurre qualcosa (ovvero che io mi decidessi cosa farle suonare), mentre già la strada si srotolava col suo solito srotolarsi, ecco, dalle labbra (dal petto, dal cuore, da chissà dove) mi è uscita questa:
And I feel like I’m a rider on a downbound train
Non è facile da spiegare, ma: la sento prima di canticchiarla. È un’onda interiore che monta e s’infrange lasciandosi dietro residui, scorie di emozioni e sensazioni, una polpa (più che uno stato) d’animo che arriva da lontano. Dal profondo e da molto lontano.
Estate 1984. Già. A giugno era uscito Born in The USA, quel disco-valanga, quel bolide di canzoni e sudore e precipizio orizzontale, di strade e birrerie appiccicose, di sentimenti interrotti e tutto un tumulto contenuto a forza nel petto che tu chiamalo se vuoi american dream, del quale avverti allo stesso tempo l’inganno e l’impeto, il precipizio irresistibile e una brusca preveggenza di schianto.
Ora, qualunque cosa io possa pensare oggi di Born In The USA e di Bruce Springsteen (un ventaglio di opinioni e sentimenti che va dal molto bene al piuttosto male), aver fatto uscire un disco come quello nell’estate dei miei quattordici anni è qualcosa di cui dovrò per sempre ringraziare l’inconoscibile Demiurgo del Rock (so che esiste, non può non esistere). Nel giro di un mese i fratelli maggiori, i cugini e qualche padre illuminato avevano accolto le nostre sollecitazioni e ci avevano riempiti di cassette contenenti i The River, i Born To Run, i Darkness On the Edge Of Town, i Nebraska.
Oh, Nebraska: ti ricordi, Roberto, quando cantavamo Johnny 99 come due coyote ubriachi sulla panchina dei giardinetti, fottendocene (anzi: godendo) dello sconcerto sul volto dei passanti e (soprattutto) dell’imbarazzo delle amichette (alcune delle quali erano oggetto delle nostre perlopiù frustrate mire)? Sembravamo due idioti, certo, ma sembravamo anche destinati a coagulare in un popolo, immensamente più vasto e denso del nostro essere tribù periferica, studentelli ignari di un futuro privo di prospettive e nubi.
Eppure, fu quello l’ultimo momento in cui ebbi la sensazione di condividere questa passione montante – l’ascoltare come un delimitarmi e al tempo stesso oltrepassarmi – con la mia banda di amici, un gruppo con cui avrei ancora condiviso molto tempo e divertimento ma non quello, non lo sprofondare e dilagare in un mare di canzoni, dischi, storie, musicisti pazzi e poeti capaci di cogliere pagliuzze d’inferno in mezzo al paradiso (e viceversa). Quell’ebbrezza estiva springsteeniana ebbe proprio questo di bello: il senso di combriccola, di congrega unita da legami tanto impalpabili quanto viscerali, la sensazione di procedere su strade indifferenti e in direzioni diverse ma con una stessa frequenza, al tempo di una stessa musica, di uno stesso sentire. Non è durata, quella sensazione, ma non la scorderò.
Di Born in The USA capii in fretta quanto mi piacesse e quanto non mi piacesse. Darkness e Nebraska mi avevano scavato nello stomaco e dentro le ossa: quello era ciò che cercavo, che mi somigliava o – più realisticamente – a cui tentavo di somigliare. Quella era la frequenza su cui avrei voluto sintonizzare i pensieri, l’immaginario, la sensibilità. Ma in mezzo al fracasso da pub nel cuore luminoso del mondo messo in piedi da Born In The USA, c’era pur sempre Downbound Train. Non ne capivo le parole, ovviamente (ebbene sì, a scuola mi è toccato studiare soltanto francese, sia alle medie che alle superiori: bel culo per un rockofilo, vero?). Per entrarci dentro dovevo sforzarmi, farmi aiutare. Ma quando finalmente capii ciò che dovevo capire, in realtà avevo già sentito.
Le prospettive chiuse, il legame tenace e spietato tra speranza e abbandono, la fragilità e la persistenza del sentimento, la durezza grigia e disperata del mondo. E il treno, il treno come archetipo di fuga e assieme impossibilità di fuga, il treno come immagine inafferrabile e segnante, in bilico tra dover andare e immobilità, nella negazione inappellabile di qualsiasi redenzione.
Downbound Train, per i miei quattordici anni, fu un’iniziazione. Molto di ciò che è venuto dopo – di ciò che ho ascoltato – ne ha oltrepassato la bellezza, di fatto seppellendola sotto strati di magia ulteriore, fino a farmela dimenticare. Però stamattina è tornata a trovarmi, mentre la strada si srotolava, indifferente come allora. Proprio come allora.
Now I swing a sledge hammer
on a railroad gang
knocking down them cross ties
working in the rain
now don’t it feel like
you’re a rider on a downbound train
Al tempo lessi che Tom Waits gli rispose con Downtown train. 😊
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A quanto pare abbiamo avuto tutti una panchina ai giardinetti, noi delle tribù periferiche
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Cazzo, sì
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