Quattro: la marginalità indomita degli Ismael

ismael

Ascoltai per la prima volta gli Ismael nel 2008. Non ne avevo mai sentito parlare. Trovai il loro omonimo album di debutto nella cassetta delle lettere. Ne ricevevo molti, all’epoca, di album d’esordio e demo. Succedeva perché mi occupavo di valutarli e recensirli per Sentireascoltare. Era abbastanza impegnativo, ma divertente. Ne ascoltavo di roba, di ogni tipo. Spesso m’imbattevo in dischi sconclusionati, sfocati, tentativi improbabili d’essere qualcosa di compiuto che avevano se non altro questo di buono: ci sentivi l’effervescenza del desiderio, la fame, il bisogno di lasciarsi alle spalle qualcosa e di abbracciare chissà quali prospettive.

Raramente insomma erano dischi buoni o anche solo accettabili, ma spesso mi lasciavano in dono qualcosa di interessante. Quello degli Ismael fu uno dei pochi che mi lasciarono la sensazione di un esprimere solido e radicato. Era un lavoro meno acerbo della media, anzi per molti versi maturo, sì, ma non per questo meno vibrante, meno bisognoso di operare una frattura. I testi erano in italiano, l’elettricità innervava un piglio narrativo che avresti detto cantautorale, qualunque cosa significasse ancora in quel tramonto di anni Zero. Soprattutto, quello che gli Ismael tentavano di raccontare – riuscendoci – aveva il passo delle storie che provengono da lontano. O da una certa profondità.

Negli anni non li ho persi di vista, malgrado non siano affatto una band appariscente. ilgirodelmiele.jpgL’album successivo era altrettanto buono, ancor più il seguente. I titoli: Due, Tre. Ho scoperto poi che Sandro Campani, chitarrista e cantante nonché autore di un po’ tutti i brani, è anche scrittore. Anzi: è in primo luogo scrittore. Dei romanzi che ha pubblicato, ho letto gli ultimi due: molto bello La terra nera (Rizzoli, 2013), bellissimo Il giro del miele (Einaudi, 2017). Storie che parlano di legami potenti e logori, sfibrati dalla vita, di personaggi aggrappati alla propria terra ma consumati da un miraggio di fuga, da una febbre che separa e unisce, dal bisogno di tracciare il perimetro di se stessi sapendo quanto sia complicato, vertiginoso, impossibile.

Se sottolineo questo aspetto è perché sono convinto che faccia la differenza, nel rock degli Ismael, che gli conferisca una piega, un abbrivio, un’angolazione non comune. Il loro nuovo, bellissimo album – intitolato, indovinate un po’, Quattro – è sostanzialmente un cantautorato molto energico, tirato fino ai limiti del punk-rock, attraversato da una fregola addirittura garage-blues, cui rimanda l’utilizzo del sax utilizzato per dare vita a riff incalzanti. Nessuno spazio per gli assolo, le canzoni sono compatte e tese, veicoli di storie che ti arrivano al petto e colpiscono duro. Un’economia sonora che trova riflesso nell’economia delle parole, in quei versi costruiti su un equilibrio molto efficace – qui la padronanza metrica e lessicale di Campani è decisiva – tra asciuttezza ed evocazione, da cui esalano letteralmente le emozioni dei protagonisti.

ismael-4I testi: storie di vite alla resa dei conti, di marginalità indomita e aspra, di bilanci che trafiggono la speranza, tutta un’epica di provincia (terra d’appennino, tra Emilia e Toscana) che rovescia i rivoli del particolare in un pelago collettivo (“si sente il torrente passare: sembra incredibile, a noi, da qui, che arrivi al mare“), riflesso cupo del nostro tempo sempre più inafferrabile e confuso. La voce di Campani è protesa tra il dire e il cantare, mastica una rabbia sempre contenuta entro i margini dell’amarezza, conservando una sorta di trasporto indolenzito per i personaggi che racconta. Le ballate, quasi tutte elettriche, sgomitano tra il piglio laconico di De Gregori, l’incendio orizzontale dei Dream Syndicate e la solennità incalzante dei CSI.

Ma, al di là degli aspetti stilistici, è come tutto sta assieme che fa il senso degli Ismael, la correlazione intima e necessaria tra musica, interpretrazione e testo, la complicità strettissima tra forma e sostanza. Una misura raggiunta con intelligenza e attitudine, senza farti pesare il processo anzi lasciando che l’ascolto si consumi libero, intenso e sferzante. Non serve altro, al rock, per essere ancora significativo. Per essere grande.

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