In Berlin

Il 10 luglio del 1973 fa usciva Berlin di Lou Reed. Ignorato (quando non stroncato) all’epoca, va considerato senza alcun dubbio tra i suoi album migliori, e quindi uno dei più grandi rock album di sempre. Di seguito un estratto dalla monografia su Lou che ho scritto per Sentireascoltare.

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Il punto di forza, il mordente delle canzoni di Lou non era – non poteva essere – il loro realismo. Non è così che funziona con certa musica, cinema, arte figurativa o letteratura. Va ricercato semmai nella tenacia con cui questo sguardo sulla realtà si ostina a vederci una possibilità di bellezza, anche nel più devastato squallore, anche nella perdizione senza sbocchi o nella durezza più cinica. La forza di queste canzoni sta nel contrasto tra la crudezza del memoir reediano – anche quando pennella quadretti innocui o sciorina un rosario di stati d’animo – e la fiducia nella bellezza dell’espressione, qualunque sia l’oggetto del rappresentare. Come certi spietati film di Scorsese o le implacabili disamine dei De Lillo.

Questo filtro di fiction organizzata come un processo che rivela lo strato insostenibile del quotidiano, è la premessa metodica del capolavoro Berlin, un concept ambientato nella metropoli tedesca contesa tra i due blocchi perché spanda sulla vicenda un pregnante senso di dissidio, sottofondo esistenziale prima che ambientale. Il produttore Bob Ezrin ha buon gioco ad allestire un teatrino sonoro brechtiano che fa immergere ogni pezzo in una stordente inquietudine mitteleuropea. Il “plot” incentrato sullo sgretolarsi della relazione tra Jim e Caroline è fin troppo chiara metafora del contemporaneo problematico rapporto tra Lou e la prima moglie Betty, ma la struttura a vampe mnemoniche, modulata tra tenerezza nostalgica e cronaca sprezzante, tra abbandono indolenzito e fatalismo bieco, con gli arrangiamenti marezzati di ugge jazzy e spunti bandistici, ne fanno un capolavoro art rock con pochi precedenti ed epigoni.

Malgrado contenesse canzoni stupende, alcune persino dall’apprezzabile appeal melodico come Sad Song o la meravigliosa Caroline Says II, si trattava chiaramente di un suicidio commerciale annunciato, tenuto conto soprattutto del periodo che vedeva avvicendarsi nelle posizioni alte dell’immaginario rockista i colpi di coda del glam (Aladdin Sane), i prodromi wave (For Your Pleasure) e le bordate hard rock (Raw Power). Purtuttavia, tracce come Oh Jim e How Do You Think It Feels possiedono eccome quel senso di irrequietezza malsana da glam avariato che avrebbe potuto e dovuto colpire nel segno.

Forse però la potenza drammatica quasi insostenibile di The Kids, la sofisticata malinconia di The Bed e la cinematica inquietudine della title track (con le sue ricercate propaggini jazz e l’impostazione teatrale) chiedevano troppo all’ascoltatore dell’epoca. Fatto sta che Berlin si guadagnò perlopiù indifferenza e persino disprezzo (è celebre la stroncatura che gli riservò Rolling Stone).

Quarant’anni più tardi, col vantaggio del senno del poi, non sembra altro che l’apice di un percorso che, dai primi (già grandi) passi coi Velvet, aveva condotto la sensibilità aspra, spietata e “diversamente pietosa” di Lou Reed a riposizionare la canzone rock rispetto alla realtà, o meglio alla sua capacità di restituire una narrazione della realtà che, se da un lato rifiutava la formattazione edulcorante della mitologia rock, dall’altro la cavalcava come un grimaldello per squarciare il velo dell’indicibile.

Berlin comportò un duro prezzo da pagare. Ma Lou si sarebbe dimostrato un abile mercante dei propri talenti. A costo di scendere a patti con la propria integrità.

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